Sulla copertina del disco campeggia un lucchetto e una scritta che lo schiude: “Avevamo ragione”. «Ho curato io la grafica. — dice Gabriele Masala all’altro lato del telefono — L’idea era quella di rappresentare una cultura atavica scardinata dal pensiero». L’occasione della chiacchierata è l’ultimo Lp del musicista sassarese. Il cantautore vanta un curriculum artistico di tutto rispetto: nove album all’attivo, una lunga carriera concertistica in tutta l’isola e collaborazioni con artisti del calibro di Piero Marras, Gino Marielli ed Enrico Ruggeri.
Qui arriviamo al cuore della questione. Gli otto pezzi del disco nascono dalla sinergica amicizia fra Masala e l’autore di “Mistero”, presente anche come special guest alla voce in due brani. «Lui è un autore iperprolifico — racconta Gabriele parlando della genesi del disco —. Nel periodo del Covid ha prodotto tanto, ma non ha fatto uscire praticamente nulla. La fortuna ha giocato dalla mia parte: lui sa che la mia routine compositiva è partire prima dal testo e poi aggiungere la musica. Mi ha sempre definito “anomalo”. E a novembre ha deciso di farmi un regalo: mi ha mandato otto testi inediti su cui ho iniziato a lavorare».
Il disco è estremamente vario: c’è l’uptempo della traccia di apertura “La borghesia”, dove la crudeltà delle strofe si oppone alla distensione dell’inciso; si attraversa poi la ballata di “La canzone delle mani” per arrivare all’amalgama elettronico/elettrico di “Zelig” (metafora della capacità umana dell’adattarsi al mondo circostante) e al classic-rock della title track.
Difficile dare un’identificazione univoca dell’album: a voler usare qualche etichetta, ciò che salta all’orecchio è la preminenza del basso (area new-wave e post-rock, impronta stilistica voluta dallo stesso Masala in sede di arrangiamento) e l’ampio uso di melodie cantabili sia nella voce che nei soli di chitarra. Su questo Gabriele si sofferma molto: «Per formazione sono molto vicino ai chitarristi “mano lenta”. Amo gli assoli che ricordi e che sei in grado di cantare». Cita “Liberi, liberi” e “Albachiara”. Non male, insomma.
La poliedricità del disco è uno dei tanti argomenti di discussione con Gabriele. «Ero partito con un’idea di fondo che poi ho cambiato totalmente — ride —. Inizialmente avevo in testa sonorità jazz, cose molto più sperimentali rispetto a quello che ho fatto sinora. Poi mi sono detto: “questo non è il mio mondo”. Per me era già difficile dal punto di vista emotivo confrontarmi con i testi di uno come Enrico Ruggeri. Non me la sono sentita di uscire dal seminato.»
Ciò che colpisce dell’album è la sua doppiezza: andamenti rapidi e incalzanti, distensione, ma anche tematiche che si dividono fra pubblico e privato. La critica sociale verso la patina dei talent show di “Anime in vendita” si contrappone al pianismo intimo di “Noi due”. “La fine dell’impero”, nel suo incalzare basso-batteria, è la descrizione di «un uomo di potere senza scrupoli». Tanti bozzetti, ritratti e racconti. Tanto che inizialmente l’album si sarebbe dovuto intitolare “Personae” nell’accezione di “maschera”. Successivamente dal confronto fra Ruggeri e Masala la scelta è ricaduta sulla traccia che più di tutte rappresenta lo spirito del Lp.
L’album è interamente suonato e arrangiato da Gabriele, salvo le tastiere di Silvio Capeccia. È stato pubblicato il 1° dicembre per MegachipMusica. Prossimamente verrà presentato dal vivo, ma su questo Gabriele non si sbilancia troppo: «Ci sarà sicuramente una presentazione qui a Sassari al Teatro Verdi. Poi vedremo».