“Il Divin Codino”: cosa è stato Roberto Baggio

Il film targato Netflix racconta la storia del calciatore italiano più amato, dall’infanzia a quel calcio di rigore

È disponibile dal 26 maggio su Netflix il film dedicato alla storia sportiva di Roberto Baggio, il calciatore italiano più idolatrato dagli amanti del gioco del pallone.

Poteva essere una serie tv, come quella dedicata a Totti uscita qualche mese fa per Sky, e invece “Il Divin Codino” si limita ad una strettissima ora e mezza che riassume le tappe più significative della carriera di Baggio.

Diciamo che è un ottimo inizio per ricordare, o scoprire per i più giovani, cosa è stato Roberto Baggio per l’Italia.

Un ragazzo serioso e umile, figlio della provincia veneta, con un talento fuori dal comune per il pallone, “un predestinato” diranno di lui dagli inizi della carriera nel Vicenza.

Baggio è un fantasista, il classico numero 10, quello che inventa il gioco e con un tocco magico ti ribalta l’area avversaria, quello che ti decide la partita con una magia.

La prima ad acciuffarlo fu la Fiorentina nell’85 quando il futuro divin codino aveva appena 18 anni. Ma proprio prima che facesse a tempo ad arrivare a Firenze, ecco l’episodio che più segnerà la sua vita calcistica: un terribile infortunio al ginocchio, uno di quelli da cui riprendersi è un miracolo.

Il film ripercorre il periodo più duro che sembrava aver messo a rischio il suo futuro nel calcio, mostrando la sua cieca determinazione nel guarire e tornare in campo per guadagnarsi onestamente il primo stipendio.

Nonostante la classe cristallina non si è mai sentito diverso dagli altri, migliore. Era piuttosto occupato nel gestire la costante pressione di fare il massimo nonostante quel ginocchio riaggiustato alla meglio sotto ai ferri con 220 punti di sutura, che lo costringerà per tutta la carriera a giocare “con una gamba e mezzo”.

Ha retto prima nella testa che nel corpo grazie al buddismo, la religione che lo sosterrà nei momenti più bui.

Baggio è un’altra cosa

Si potrebbe fare l’errore di paragonarlo ai numeri 10 più odierni come Totti o Del Piero, entrambi amatissimi dalle rispettive tifoserie e, loro sì, campioni del mondo.

Ma Baggio è un’altra cosa, non è una bandiera di nessuna squadra in particolare, è di tutti i tifosi italiani che nel ’94 lo videro trascinare a suon di gol l’Italia verso la finale col Brasile. Il nostro Maradona, diranno. Lo stesso giocatore immenso che sbaglia il rigore della vita. Un episodio che lo consacrò alla mitologia calcistica e non fece altro che accrescere l’affetto nei suoi confronti, come ricorda la commovente canzone firmata da Diodato, che nella strofa finale confessa a Roberto: “Lo so potrà sembrarti un’esagerazione, ma pure quel rigore a me ha insegnato un po’ la vita”.

Tutti i colori di Baggio

Baggio si è fatto amare da ogni tifoseria delle tante squadre che hanno avuto la fortuna di poterlo schierare in campo.

Quando fu ceduto, suo malgrado, alla Juventus, a Firenze non la presero benissimo, tanto che in città ci fu una guerriglia di ben tre giorni. Dopo 5 anni di vittorie in bianconero tra cui il Pallone d’Oro nel ‘93, passò al Milan per due anni, un’annata al Bologna per poi tingersi di nerazzurro dove giocherà in coppia con Ronaldo fino al 2000. Nonostante godesse della stima del presidente Moratti, verrà ceduto a causa della forte antipatia tra lui e l’allenatore Lippi, raccontata nell’autobiografia “Una porta nel cielo”.

A quel punto sembra non ci sia più nessuna squadra italiana disponibile ad ingaggiarlo proprio per la propensione ad avere rapporti difficili con gli allenatori.

Il genio incompreso

La critica più frequente che si fa a Baggio è di non essere mai stato un uomo di squadra. Per questo motivo i tanti che lo hanno avuto nella rosa spesso non sono stati in grado di gestirlo al meglio, mettendolo alla sbarra tra relegature in panchina e commenti poco affettuosi.

Il pallone d’oro dirà che alcuni non sopportavano di essere messi nell’ombra a cui un fuoriclasse come lui per natura condanna gli altri.

Finirà la carriera al Brescia, una squadra di bassa classifica dove però trova un secondo padre nell’allenatore Carlo Mazzone, che costruirà il gioco attorno a lui, ridandogli la motivazione per procurarsi un posto nella nazionale di Trapattoni. L’ultima cocente delusione della sua carriera che si concluderà nel 2004.

Ah, da quando Baggio non gioca più…

Ecco, ogni volta che si canticchia la strofa di Cremonini si ritorna inevitabilmente con la testa a quel rigore maledetto che lo perseguita tutt’oggi nei sogni.

Il mito di Baggio sta tutto dentro a quel rigore tirato alto, alla sua fallibilità umana, a quella capacità di cadere e rialzarsi, di non nascondere l’uomo dietro il campione.

D’altronde lui non ha avuto paura di tirarlo quel rigore. E lo avrà pure sbagliato, ma si sa che non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.

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