Il film “Santa Maradona” uscì esattamente vent’anni fa nel 2001, ed è la pellicola giusta per ricordare l’attore Libero De Rienzo, morto pochi giorni fa a 44 anni.
Il primo film di Marco Ponti è già da anni un piccolo cult per la generazione di chi all’epoca aveva vent’anni, soprattutto grazie all’interpretazione di De Rienzo nei panni del buffo Bart.
Un personaggio iconico che ha lasciato un segno nel percorso artistico dell’attore, che nella sua carriera aveva ricoperto ruoli ben più pesanti come quello del giornalista Giancarlo Siano ucciso dalla camorra in “Fortapàsc”. Picchio, come lo chiamavano amici e fan, aveva ottenuto anche il successo commerciale con la commedia crime “Smetto quando voglio” ed era in generale molto ben voluto e rispettato dai colleghi.
Ma fu il mitico film di inizio millennio, premiato con due David di Donatello, a fargli guadagnare l’affetto del pubblico.
Due disoccupati a Torino
“Santa Maradona” racconta le vicende di due coinquilini sui trent’anni, Bart(olomeo) e Andrea, che vivacchiano a Torino in attesa di trovare lavoro, ma senza uno scopo ben preciso o perlomeno molto vago.
Bart paga l’affitto spedendo recensioni scritte dal cugino siciliano ad alcune ignare riviste, il resto del tempo lo passa chiuso in casa a giocare ai videogame e guardare film.
Andrea, interpretato da un già affermato Stefano Accorsi, spende le sue giornate facendo inutili colloqui di lavoro che non portano mai a niente di concreto.
Una delle battute più famose del film spiega benissimo la situazione di bambagia in cui i due si ritrovano: «L’affitto è in nero, non lavoriamo, non siamo iscritti a nessuna lista di collocamento: tecnicamente non esistiamo». E in effetti nessuno sa della loro esistenza se non il colorito padrone di casa che li minaccia per avere gli arretrati dell’affitto.
Ad un tratto Andrea incontra Dolores, interpretata da Anita Caprioli, e se ne innamora. Ma la storia non ruota attorno a questa vicissitudine amorosa bensì attorno alla vita fuori fase dei due amici che si ritrovano spesso a cazzeggiare sul divano o al bar facendo lunghe discussioni filosofeggianti sulla vita e considerazioni varie sui miti della propria generazione.
Era insomma un film diverso nel panorama italiano dell’epoca e, tristemente, lo sarebbe ancora oggi. Si potrebbe dire, per gli appassionati del genere, che “Santa Maradona” sta ai film come “Boris” sta alle serie tv.
Originale, ironico, spesso e volentieri dissacrante, senza una trama ben definita ma composta da dialoghi fitti e sarcastici, talvolta nonsense, che danno la misura della gioventù bruciata di allora.
“Santa Maradona” non è inquadrabile, già dal titolo è abbastanza fuorviante poiché con Maradona o il calcio appunto non c’entra granché – a meno di non citare la scena dei protagonisti al Delle Alpi – se non che la sigla che lo accompagna è la canzone dallo stesso titolo dei Mano Negra, gruppo di Manu Chao, contenuta nel disco Casa Babylon.
Il citazionismo
“Santa Maradona” è uno di quei film in cui sono citati altri film. C’è la scena memorabile in cui Bart spiega le “tette intertestuali” di Sharon Stone in “Basic Instinct”, c’è il riferimento al film “Butch Cassidy” nel finale quando i due si alzano di scatto dal divano e ancora quelli a “Trainspotting” (all’epoca una nuova uscita) nella scena in cui scappano dopo il furto alla libreria.
La propria peculiarità ha fatto sì che esso stesso sia diventato a sua volta fonte di citazioni: “Che tristezza” è la frase bandiera del film ripetuta da Bart in varie scene, ma vengono in mente anche le perle di retorica sul «perché si fuma» o riguardo alla «sregolatezza senza genio».
Il piccolo cult italiano
Il film non è mai scomparso dal radar degli appassionati di buon cinema, riemerge sempre anche nei discorsi dei protagonisti del piccolo cult. Tanto è vero che De Rienzo ne parlava così appena qualche mese fa: «I ricordi legati a quel film sono molto belli. È un film che per tutta una generazione più giovane della mia è stato abbastanza formativo.»
Poi con l’umiltà dei migliori, che come da retorica purtroppo se ne vanno sempre troppo presto, aggiunge: «Non voglio scomodare parole troppo grosse come “cult” ma ha comunque lasciato un segno».