Beau ha paura: Joaquin Phoenix protagonista di un’odissea emotiva e surreale nel nuovo film di Ari Aster

Nelle sale cinematografiche dal 27 aprile, la pellicola del regista di “Midsommar” rappresenta un viaggio all’origine delle paure reali e immaginarie che condizionano l’esistenza dell’essere umano

Joaquin Phoenix in “Beau ha paura”. 📷 Takashi Seida | A24 Films

Joaquin Phoenix in “Beau ha paura”. 📷 Takashi Seida | A24 Films

Alle spalle ha “solo” due lungometraggi, ma senza dubbio lo sceneggiatore e regista Ari Aster, classe 1986, può essere definito un esperto nella narrazione della paura: se in “Hereditary – Le radici del male” (2018) e “Midsommar – Il villaggio dei dannati” (2019), entrambi accolti positivamente da pubblico e critica, Aster ha indagato questo tema attraverso una sapiente e originale rivisitazione dei canoni del genere horror, “Beau ha paura” lo indaga dalla prospettiva di una dark comedy distopica “on the road”, in cui il protagonista vive la propria personale odissea emotiva in un futuro tratteggiato, con brevi pennellate, come post-apocalittico, violento e respingente, soprattutto nei confronti di chi vive una condizione di fragilità emotiva.

Beau Wassermann (Joaquin Phoenix) è chiamato a intraprendere un viaggio reale e simbolico: deve raggiungere sua madre Mona (Patti LuPone) in occasione dell’anniversario di matrimonio dei suoi genitori, ma non ha mai conosciuto suo padre, morto nel momento esatto dell’orgasmo che ha determinato il suo concepimento. Secondo quanto Mona ha sempre raccontato, la dipartita del padre di Beau è stata causata da una condizione genetica che sarebbe stata trasmessa anche a suo figlio: tanto basterebbe per comprendere la dimensione di perenne timore e paranoia che caratterizza l’esistenza del protagonista, terrorizzato dall’idea di innamorarsi e vivere con naturalezza e spontaneità la propria sessualità, e perennemente in cura da un terapista (Stephen McKinley Henderson), che gli prescrive un farmaco sperimentale contro ansia e attacchi di panico.

Così Beau vive in trascuratezza, tra le mura di un appartamento insignificante, in un palazzo semi-distrutto: il mondo esterno, d’altra parte, è popolato di personaggi perduti, le regole della società civile paiono dimenticate e la minaccia di una morte violenta appare costante. Non è dato sapere quali siano le cause dell’aberrazione in cui è precipitata l’umanità, fatto questo che contribuisce ad aumentare il senso di inquietudine, ma nonostante le sue innumerevoli paure, reali e immaginarie, Beau sembra deciso a partire, a prendere quell’aereo che dovrebbe condurlo da sua madre: il viaggio si trasforma dunque in un’occasione per affrontare i propri traumi interiori e assume ben presto le caratteristiche di un’odissea kafkiana, in cui risulta difficile distinguere incubo e realtà.

Il percorso di Beau per ricostruire, in qualche modo, i legami familiari si snoda infatti tra spazio e tempo, in un susseguirsi di tappe apparentemente nonsense: è, in definitiva, il viaggio di una vita, in cui il protagonista attraversa età differenti per scoprire le origini delle proprie paure e tentare di superarle; il cammino è costellato di incontri -tra cui spiccano Elaine (Parker Posey), grande amore di Beau fin dall’adolescenza, Grace (Amy Ryan) e Roger (Nathan Lane), marito e moglie che si prendono cura del protagonista dopo un incidente- e destinato a concludersi in un confronto con la figura materna, origine di vita e morte.

L’accoglienza del film al botteghino, negli Stati Uniti, è stata molto positiva, ma la critica si è espressa in maniera nettamente ambivalente: per via della sua durata, quasi tre ore, la pellicola è stata definita sfiancante e inconcludente, d’altra parte l’odissea di Beau è stata giudicata un capolavoro, capace di esprimere con notevole potenza espressiva un messaggio già in parte suggerito nelle precedenti opere di Aster: la paura ha radici profonde, che dipendono solo in minima parte dal contesto in cui uomini e donne hanno la sorte di vivere. Joaquin Phoenix interpreta un personaggio esemplare: forse eccessivo, per il carico di paranoie e retaggi familiari che il regista gli carica sulle spalle, ma capace di rappresentare, in maniera titanica senza dubbio, il percorso di chiunque si trovi ad affrontare un trauma emotivo, piccolo o grande che sia, e sia intenzionato a comprenderlo e, forse, risolverlo.

Il lieto fine, in questo genere di odissea, non è scontato: il ritorno a casa può non essere risolutivo, ma, in fondo, anche in questa indeterminatezza risiede la capacità del regista di osare, sporcarsi le mani e giocare alla rivoluzione degli stili -interessanti gli inserti narrativi in animazione e quelli più marcatamente teatrali- e dei generi. Non a caso il film è prodotto da A24, casa di produzione dell’innovativo, quanto discusso “Everything Everywhere All At Once”, firmato da The Daniels e trionfatore all’ultima edizione dei Premi Oscar: dopo aver fatto il salto definitivo dalla distribuzione alla produzione, A24, fondata nel 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges, si è progressivamente imposta nel mercato cinematografico, grazie alla scelta di progetti coraggiosi e registi capaci di mettere in discussione i canoni di genere, come Yorgos Lanthimos (Il sacrificio del cervo sacro), Darren Aronofski (The Whale) e Ti West (X: A Sexy Horror Story), per finire proprio con Ari Aster.

La condizione di Beau, nell’interpretazione istrionica e commovente di Joaquin Phoenix, racchiude un messaggio quanto mai attuale, legato all’importanza che la cura della dimensione emotiva dovrebbe avere nelle dinamiche familiari e, più in generale, sociali: Ari Aster lo grida forte e chiaro, attraverso la chiassosa distopia di un animo ferito.

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