Civil War: Alex Garland dipinge un futuro distopico per gli Stati Uniti dilaniati dalla guerra civile

Un film-documentario che immagina un futuro di conflitti e tensioni negli Stati Uniti, con un cast d’eccezione e una regia magistrale. Un’opera che fa riflettere sul presente e sul ruolo dell’informazione

La fotoreporter Lee (Kirsten Dunst), nel film “Civil War” di Alex Garland

Alex Garland, romanziere, sceneggiatore e regista, scrive e dirige “Civil War”, in arrivo nelle sale il 18 aprile, e porta sul grande schermo una distopia di taglio documentaristico, che tratteggia per il futuro degli Stati Uniti una guerra civile sanguinosa, provocatoriamente plausibile come evoluzione degli attuali scenari storico-politici che gli operatori dell’informazione raccontano quotidianamente, con grandi difficoltà e a rischio della vita, da tutto il mondo.

L’immagine scelta per una delle locandine del film, un dettaglio della fiaccola della Statua della Libertà trasformata in una postazione per cecchini, evidenzia con efficacia la deriva delle istituzioni democratiche in cui versano gli USA: Garland sceglie di non raccontare come sia iniziata la guerra, suggerendo che, dopotutto, poco importano le ragioni per cui scoppia un conflitto -soluzione sempre insensata e disumana- o l’appartenenza a l’una o l’altra delle fazioni, e catapulta il pubblico nel mezzo dell’azione, provocando volutamente un senso di straniamento e di shock: nel film New York appare trasformata, ma non tanto da essere irriconoscibile, mentre i suoi abitanti soffrono per la mancanza d’acqua e sono costantemente in allerta per via degli attentati dei kamikaze, che minano la tenuta della città.

In questo clima di tensione, si ricostruisce, principalmente da stralci di dialogo, la situazione in cui versa l’intero paese: le Truppe Occidentali di Florida, Texas e California, braccio armato di un governo secessionista, marciano alla volta di Washington, decise a prendere la Capitale e destituire il Presidente degli Stati Uniti (Nick Offerman), barricato alla Casa Bianca dopo la proclamazione del suo terzo mandato, la destituzione dei vertici dell’FBI e, infine, l’uso indiscriminato delle armi sulla popolazione. Proprio questo regime totalitario avvicina e consolida l’alleanza di forze politico-economiche e sociali tradizionalmente opposte, che si uniscono in una compagine occidentale decisa a realizzare con ogni mezzo un colpo di stato.

Da New York, dunque, i protagonisti del film, il giornalista Joel (Wagner Moura) e la fotoreporter Lee (Kirsten Dunst) decidono di mettersi in viaggio per raggiungere Washington e intervistare il Presidente; a loro si uniscono l’attempato giornalista Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la giovane fotografa Jessie (Cailee Spaeny), che nutre nei confronti della più esperta Lee una sconfinata ammirazione. In un susseguirsi di atti terroristici tesi a destabilizzare le opposte compagini, i reporter attraversano il paese e documentano la realtà della guerra civile che ha diviso gli Stati Uniti senza schierarsi o esprimere giudizi: testimoni dell’assurdità di un conflitto fratricida, questi rappresentanti del mondo dell’informazione perseguono la neutralità, ma non sono immuni dal desiderio egoistico di uno scoop, così come da rabbia, terrore e pietà.

Perfino il cinismo necessario a sopravvivere in una condizione di pericolo costante, tuttavia, può essere scalfito, così Jessie fa breccia nella freddezza di Lee, che è ormai abituata ad affrontare il proprio lavoro con distacco e disillusione; l’esperta fotoreporter rivede se stessa nelle motivazioni e nella passione della più giovane collega, ma questo spiraglio di umanità, purtroppo, costituisce un rischio, la rende debole, vulnerabile.

La marcia verso Washington procede a ritmi serrati, inframezzati da brevi inserti fotografici senza sonoro, talvolta in bianco e nero, che catturano la potenza e il significato di singoli momenti, altrimenti persi nella spirale della violenza: questa accattivante scelta stilistica sembra suggerire quanto sia necessario approfondire temi e notizie in un mondo, come quello attuale, dominato da contrapposizioni fin troppo superficiali a livello politico, e costantemente bombardato da informazioni non supportate dalle opportune verifiche o utilizzate come mezzo di manipolazione delle masse.

L’uscita di “Civil War” coincide con un momento storico particolarmente delicato e, per quanto Garland abbia dichiarato che avrebbe potuto ambientare la vicenda anche in un altro paese, il film riecheggia, peraltro in maniera non banale o didascalica, il presente degli Stati Uniti, caratterizzato da scenari decisamente complessi, a cominciare dalla corsa di Donald Trump alla Casa Bianca, con la netta contrapposizione nei confronti di Joe Biden che spacca in due, anche geograficamente, il paese, per arrivare al problema del controllo delle armi.

“Civil War”, del resto, con i conflitti russo-ucraino e israeliano-palestinese in continua e preoccupante evoluzione, che mietono quasi quotidianamente vittime proprio tra gli operatori dell’informazione, fotografa letteralmente e metaforicamente un futuro che, per molti aspetti, non può essere etichettato come del tutto impossibile: in questo senso, il finale scelto da Garland per la sua distopia si prefigura amaro e spiazzante.

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