All’Università di Cagliari si studia una plastica prodotta dagli scarti del latte

? Adobe Stock | Jenny Sturm

In un futuro molto vicino a noi dagli scarti della produzione del latte si potranno produrre bioplastiche biodegradabili. Questo è in sintesi uno dei tanti progetti di ricerca del team dell’Università di Cagliari guidato dal professor Aldo Muntoni, docente di Ingegneria Sanitaria Ambientale della Facoltà di Ingegneria e Architettura, che si pone l’obiettivo di unire la salvaguardia dell’ambiente con la valorizzazione delle risorse del territorio. “L’ateneo – racconta il docente – ha da oltre venti anni in essere una serie di ricerche che hanno l’obiettivo di gestire i residui, rifiuti solidi o liquidi, biodegradabili che se immessi nell’ambiente comporterebbero delle problematiche gravi ma che, se adeguatamente trattati, renderebbero alcuni cicli produttivi economicamente più virtuosi preservando l’ambiente e le risorse fossili non rinnovabili”.

Il progetto non è ancora concluso e gli studi sono oggetto di brevetto e, ad oggi, al laboratorio del dipartimento proseguono incessanti gli studi. “Il siero è il prodotto principale della lavorazione del latte durante la produzione del formaggio – specifica il docente -. Su dieci litri di latte si produce un chilogrammo di formaggio e sette/otto litri di siero che soltanto in parte verrà utilizzato per produrre la ricotta. A sua volta questa lavorazione produce un altro scarto che si chiama scotta”. Sono proprio questi due rifiuti liquidi gli attori principali della ricerca. Scarti di attività agricole che hanno una caratteristica importante ossia essere biodegradabili.

“All’interno dei nostri laboratori – prosegue il professore – non facciamo altro che sfruttare questa biodegradabilità per la produzione di biopolimeri o altri prodotti utilizzabili nell’industria farmaceutica, cosmetica e nutraceutica, o che hanno valenza energetica, come nel caso della produzione combinata di idrogeno e metano o etanolo; da un punto di vista energetico studiamo anche processi ancora più avanzati che sfruttano la capacità di alcuni batteri di convertire l’energia chimica dei rifiuti biodegradabili direttamente in energia elettrica. In definitiva, attraverso una serie di procedure caratterizzate dall’azione di batteri siamo in grado di convertire il residuo, sia liquido che solido, in qualcosa di utile. Con particolare riferimento alla produzione di biopolimeri il processo si articola su più fasi che riguardano la trasformazione del siero e della scotta, la acclimatazione di specie particolari di batteri, l’accumulo di biopolimeri all’interno della cellula batterica e l’estrazione degli stessi. Tutti questi processi sono integrabili e combinabili nell’ambito del concetto di bioraffineria per rifiuti”.

All’Università di Cagliari questi processi vengono applicati anche ad altri residui organici quali le vinacce, le acque di vegetazione derivanti dalla produzione dell’olio di oliva o i reflui zootecnici, sempre in un’ottica di bioraffineria. “Un approccio questo – conclude il docente – che andrebbe a far cadere la contraddizione etica insita nelle bioraffinerie di prima generazione e consistente nella sottrazione di prodotti e aree agricoli al ciclo alimentare per destinarli alla produzione di prodotti ed energia”.

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