Lorenzo Patta, il ragazzo d’oro dell’atletica sarda, si racconta: «Sono un ragazzo casa e campo»

Dal sogno di diventare calciatore a centometrista olimpico

Lorenzo Patta. 📷 Colombo/FIDAL

Lorenzo Patta. 📷 Colombo/FIDAL

In un secondo accadono cose straordinarie: la Terra percorre 30 km intorno al Sole, nello Spazio si formano 4800 nuove stelle e un’ape batte le ali 270 volte.

Basta una frazione di questo secondo, un solo preziosissimo centesimo, a fare la differenza tra una medaglia d’oro e un argento nella finale olimpica della staffetta 4×100 maschile. Lo sa bene Lorenzo Patta (Gs Fiamme Gialle della Guardia di Finanza), primo sprinter dei fantastici 4 azzurri. Vent’anni, oristanese orgoglioso, sobrio e schietto nella vita come in pista. Passato dal correre dietro il pallone alle piste d’atletica, grazie al maestro a cui deve la medaglia.

Hai un passato da promessa del calcio, ma come e quando ti sei avvicinato all’atletica?
Ho cominciato a fare atletica con i Giochi Sportivi Studenteschi al liceo, dove mi ha notato il mio attuale allenatore. Da calciatore ero un po’ scettico perché non avevo intenzione di cambiare, giocavo ne “La Palma Monteurpinu”, e inizialmente mi sono diviso tra i due sport per poi dedicarmi solo all’atletica quando sono arrivati i primi successi, come il titolo italiano nei 200 metri. All’inizio l’ho presa come un gioco, l’olimpiade era un sogno a cui non pensavo minimamente e che è iniziato a diventare realtà dopo Savona (dove il 13 maggio 2021 ha corso i 100 metri in 10″13, settima miglior prestazione italiana di sempre). Il calcio resta comunque la mia più grande passione.

A Tokyo, all’arrivo nella finale della staffetta Tortu si mette le mani tra i capelli perché non crede e forse non capisce di aver vinto. E tu sei il primo che corre ad abbracciarlo, perché tu invece l’avevi capito, no? Cosa gli hai detto in quel momento?
Sì, Tortu non l’aveva capito ma io ho visto dal maxischermo che aveva messo la testa davanti agli altri. Non ricordo cosa gli ho detto, ma quando l’ho visto arrivare sul traguardo continuavo a ripetermi «No, no, non è possibile!». Con lui ho il legame più stretto perché lo conosco da più tempo. Però ho un bellissimo rapporto anche con Marcel e Fausto, e inevitabilmente dopo questa medaglia è come se fossimo diventati tutti fratelli.

La notte prima di una finale olimpica immagino sia un po’ come la notte prima degli esami, tu come l’hai passata?
Ho dormito tranquillo perché la gara sarebbe stata la sera dopo, non ho avvertito troppa pressione. Non ho dormito invece la notte prima della batteria, per la tensione della gara d’esordio, avevo un po’ d’ansia, però il giorno dopo andando in pista è sparito tutto. Devo ringraziare non so chi per essere una persona tranquilla anche in queste situazioni, fa parte di me, ed è una caratteristica che mi piace.

Quanti sacrifici ci sono dietro questa medaglia? È stato difficile coniugare lo sport agonistico con la scuola, gli amici, le serate. Hai mai dovuto rinunciare a qualcosa?
Non sono mai stato uno studente modello però l’ultimo anno di liceo è stato particolarmente difficile, per gli allenamenti cinque volte a settimana e le gare che spesso mi costringevano a fare assenze. Chiaramente devi sacrificare dei momenti anche con gli amici, ma non sono tipo da lunghe serate e non mi piace molto andare in discoteca. Sono un ragazzo casa e campo.

Nel film “Ogni maledetta domenica” Al Pacino fa uno storico discorso motivazionale alla sua squadra di football, che poi arriva alla vittoria. Tu hai vissuto lo sport prima in un contesto così, di squadra, e poi in singolo. Quali sono le differenze e hai un Al Pacino o lo sei di te stesso?
Ci sono grandi differenze che stanno proprio nella presenza dell’allenatore, dei compagni di squadra e dei dirigenti nel calcio. Non sei mai solo e coi compagni ci si sostiene a vicenda perché l’obiettivo è comune. Nell’atletica invece corri contro te stesso e il cronometro, quindi se non hai motivazioni è meglio cambiare specialità. Io riesco a trovarle in me stesso e grazie al mio allenatore che mi sprona ogni giorno ed è stato presente anche nei momenti più difficili come gli infortuni. L’ultimo curato giusto in tempo per Tokyo. In questi momenti lui e la mia famiglia sono stati fondamentali perché mi hanno aiutato a far passar il periodo senza farmi perdere la fiducia.

Col tuo allenatore Francesco Garau, che è una leggenda dell’atletica oristanese, che rapporto c’è?
Divino. Nonno e nipote. Ci vediamo quasi ogni giorno da cinque anni e c’è un bellissimo rapporto che va oltre la pista e gli allenamenti, perché mi ha insegnato molto al di là dello sport. È una figura mitologica dell’atletica oristanese e per me lo è anche a livello mondiale. Non posso che ringraziarlo per tutto quello che fa e quest’oro è anche merito suo. Mi hanno detto che dopo la gara si sono sentiti con mio padre e sono rimasti due minuti soltanto a piangere al telefono. Questa medaglia è il giusto riconoscimento per tutto quello che ha fatto e son felice di avergliela portata io.

Quali sono i prossimi obiettivi? Parigi 2024 non è lontana, punti ad una medaglia in singolo?
I prossimi obiettivi sono mondiali ed europei l’anno prossimo. A Parigi preferisco non pensarci troppo, ma fare un passo alla volta fino al 2024. Per una medaglia è tosta, sarebbe già un grande traguardo arrivare in finale, magari nei 200 metri.

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