Memorie natalizie: il professor Brigaglia racconta le tradizioni del Natale in Sardegna

Il professor Manlio Brigaglia

Nel dicembre del 2015 abbiamo incontrato il professor Manlio Brigaglia (scomparso il 10 maggio 2018) che ci ha messo a disposizione i suoi tanti ricordi e il suo immenso patrimonio librario.

«Nadale, in sassarese Naddari. In gallurese lo chiamiamo Pasca di Natali, magari per distinguerlo dalla Pasca di Rosi, che è quella d’aprile. Per la Chiesa è la festa più importante dell’anno, invece a stare al modo in cui la celebriamo in Sardegna sembra meno importante di tante altre», ragionava il professor Brigaglia.

Nello studio della sua casa di Sassari abbiamo parlato con lui del Natale e del modo in cui i sardi, nel passato, lo hanno celebrato. Di seguito vi riproponiamo l’intervista.

Natale e Sardegna, che rapporto c’è tra queste due parole?
A mio avviso il periodo di Natale è circondato da tante feste un po’ dappertutto, nell’isola. Ma, soprattutto nella tradizione, proprio il giorno di Natale ha meno celebrazioni di quanto ci si aspetterebbe. Prendiamo Sassari. Nel passato si facevano feste da diversi giorni prima e diversi giorni dopo Natale. Ma proprio quel giorno sembrava che fosse… Sacro, quasi che si volesse rispettare nel silenzio e nella meditazione tutta l’importanza della festività. Gli unici che si divertissero erano i bambini. Al centro, diciamo nei secoli scorsi, c’erano proprio i regali per i bambini, messi ai piedi dell’albero di Natale o lungo i bordi del presepio. E anche qui c’è la domanda: è venuto prima il presepio o l’albero? A Napoli, per esempio, la “fabbricazione” del presepio con le cento statuette di ceramica è arte conosciuta da secoli; solo più tardi, dalle fredde regioni del Nord, è venuto l’albero.

Non c’era proprio niente che caratterizzasse il Natale?
A Sassari i bambini poveri, per consolarsi, cantavano. Cantavano soprattutto A li tre re, che era in realtà una canzone della Befana: con quella bussavano alle porte delle case chiedendo qualche soldo, un dolce, un fico secco (a la carigga li paddro’, veramente, era l’invocazione finale del canto della Befana). E quando erano bambini di fantasia o avevano alle spalle qualche abile scrittore, cantavano maliziose Gòbbule spesso piene di malignità o di doppi sensi. “Molte persone ebbero in Sassari fama come compositori di Gòbbulee fra gli altri il notaio Masala, rinomatissimo“, dice Enrico Costa: curiosamente, aggiungo io, altri famosi “gobbulisti” erano notai anche loro, uno per tutti il notaio Maniga, padre e nonno di altri notai. Chissà se le scrivono anche loro, ma so che uno dei nipoti le ha raccolte in un libretto.

Come ci si preparava al fatidico giorno?
Il divertimento più grosso era andare a cercare il muschio sulle rocce in campagna per fabbricare il presepio. Il muschio creava uno spesso tappeto verde e umido subbra li contri, le grandi lastre di granito in cui prendevano forma le rocce. Quello faceva il prato dove ci stavano, in fondo a una capannuccia, il padre, la madre, il bambino, l’asino e il bue. E i pastori tutti intorno, che portavano sulle spalle l’agnello al Nato Re.

Ricorda un aneddoto legato a un luogo particolare?
Il posto dove si faceva il Natale più scandaloso era Tarranòa, che era il nome che ha avuto Olbia sino al 1939. Al contrario di adesso, che è città di affari e di affaristi, allora passava per un paesone di perditempo: “Tempiu pa la paddha è mintuatu, e Tarranòa pa la mandrunìa”, diceva una insultante strofetta: “Tempio è famoso per la vana superbia dei suoi abitanti, e Terranova per la mandronìa”. Mandroni, magari, ma si divertivano. Ecco come Francesco De Rosa, che ha raccontato usi e costumi degli olbiesi d’un tempo, racconta la messa solenne della notte di Natale: “Alla Mezzanotte, al canto del Gloria in excelsis Deo, una moltitudine di baldi giovanotti si dà in preda a una gioia indescrivibile, vera essa sia o simulata, battendo le mani, percuotendo coi piedi il pavimento, dando pugni ai confessionali, battendo spesso questi e le panche, con sassi di cui alcuni si erano premuniti, rendendo per tal modo più assordante il baccano e maggiore la confusione”.

Maestro elementare, De Rosas fu anche giornalista e conferenziere, apprezzato soprattutto nella Gallura del suo tempo, a cavallo tra il 1854 e il 1938.

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