L’agnello, il punk agropastorale di Mario Piredda

Foto Francesca Ardau

Mario Piredda, regista sassarese trasferitosi da tempo a Bologna, definisce questo suo primo lungometraggio un “punk agropastorale”. “L’agnello” (la cui uscita ufficiale era prevista per il mese di marzo) è stato proiettato per la prima volta a Cagliari il 18 luglio e sta proseguendo il suo tour facendo tappa nelle principali città italiane. L’evento spin-off speciale della terza edizione del Festival Bookolica, tenutosi al cinema teatro Giordo di Tempio Pausania il nove settembre, è stato l’occasione per vedere il film alla presenza del regista e per far emergere alcune riflessioni riguardo alcune scelte e significati di questo lavoro cinematografico.

La scena iniziale del film si apre catapultandoci all’interno di una stalla dove avviene il parto di due agnellini. Uno nasce sano mentre l’altro con malformazioni che non gli permettono di respirare oltre. La vita che si affianca alla morte è il leitmotiv di tutto il lungometraggio.

L’agnello che dà il titolo all’opera è una metafora che si presta a diverse interpretazioni. Elemento sacrificale con il quale s’identifica un’intera popolazione, quella sarda che vive nella zona di comfort, a ridosso dello spettro delle basi militari.

Mario Piredda. Foto Beatrice Belletti

«Una presenza che non viene mai mostrata – precisa il regista –; un’assenza-presenza che ho provato a raccontare in modo personale, intimo e soprattutto sincero. Il punto di vista è esterno, da fuori, e non oltrepassa quel limite invalicabile che separa il territorio civile da quello militare, inaccessibile ai personaggi del film esattamente come nella realtà. “L’Agnello” è un film sulle persone che vivono vicino un’ipotetica base militare, non un’inchiesta. Ci sono tanti documentari e video reportage che raccontano l’argomento, non volevo fare un remake di questi lavori ma solo il mio film».

Una presenza-assenza che aleggia come uno spettro e che vede come principale antagonista Anita, una ragazza che cerca tramite la ribellione nata dal dolore e dal senso d’impotenza di risvegliare coscienze che paiono sopite, di colpire un’entità senza corpo e astratta come un dio cattivo.

Tutto ciò avviene sia nell’ambito del contesto trattato sia nei rapporti familiari lacerati. Anita (l’attrice in erba Nora Stassi), figlia di Jacopo (interpretato dall’attore Luciano Curreli), malato di leucemia, mette in scena in maniera prorompente un ruolo chiave che costituisce il fulcro del film.

Il fatto di raccontare da un’ottica distanziata una Sardegna non facile, ben lontana dall’immagine più famosa che se ne dà solitamente, sembra aiutare a comprendere meglio certe situazioni, come dimostra il lavoro di altri documentaristi e registi, quali Lisa Camillo autrice di “Una ferita italiana”, documentario che affronta la questione delle servitù militari, e Massimiliano Mazzotta, regista pugliese di “Oil”, che racconta la realtà che circonda il polo petrolchimico della Saras.

Nel caso di Mario Piredda allontanarsi dalla Sardegna gli ha permesso di guardare le cose in maniera diversa: «Osservare da un punto più lontano mi aiuta a comprendere e ad educare il mio sguardo. Non credo sia una regola quindi non posso parlare per gli altri: ho visto anche opere meravigliose di autori sardi che non si sono mai spostati. Difficile invece è raccontare i sardi e la Sardegna per uno che non è nato e vissuto qui. In pochi ci sono riusciti, anzi in pochissimi. Al cinema Lumiére a Bologna una spettatrice, sicuramente sarda, mi ha chiesto: “Come hai fatto a non trasformarci in delle macchiette?” Ho risposto: “Grazie, è il più bel complimento che abbiano mai fatto al film”.»

“L’Agnello” è principalmente una storia d’amore che non può evitare di andare a sbattere contro certe tematiche, ambientata in una Sardegna quasi senza tempo e semideserta, nella quale gli elementi cruciali sono rappresentati da istituzioni ostili e presidi ospedalieri. Il film racconta il dramma di un uomo che si ammala a causa della presenza delle basi. Non è la prima volta che nel cinema si utilizza l’espediente narrativo che consiste nel partire da una storia privata per arrivare a denunciare un problema generale.

Al di là della scelta artistica e personale del regista pare che per risvegliare la questione etica di ciò che rappresentano questi colossi generatori di morte e malattie sia strettamente necessario partire da fatti intimi. Mario Piredda afferma che «Il film non ha la pretesa di denunciare, ma mostrare e far riflettere. Cerca di raccontare un dramma con semplicità e delicatezza, senza essere saccente e con rispettosa ironia. Raccontare una storia privata e intima non ha uno scopo preciso, è solo più vicina a me, la conosco, posso decifrarla e metterla in scena con naturalezza. Se poi serve e aiuta a risvegliare coscienze dormienti sono contento ma non c’è dietro la matematica. Mettere in scena storie locali per raccontare temi universali, questo è quello che cerco di fare con il mio lavoro

Un film che, da qualsiasi angolazione si scelga di guardarlo, offre una prospettiva autentica e poetica, di una poesia non banale e soprattutto non rappresentativa di quei luoghi comuni che troppo spesso ingabbiano i sardi in cliché non troppo edificanti.

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