L’aborto in Italia: da reato a diritto, cosa è cambiato

La pratica si è modificata notevolmente negli anni ma oggi continua a non essere garantita su tutto il territorio

📷 Adobe Stock | lidiia

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Le dichiarazioni di Alfonso Signorini sull’aborto in diretta tv hanno smosso negli ultimi giorni l’opinione pubblica. La questione è da sempre fonte di dibattito perché coinvolge un insieme di valori morali e politici della persona. Ma cosa si intende per “aborto”? L’aborto è l’interruzione di gravidanza e se ne distinguono generalmente tre tipologie: l’aborto spontaneo, in cui non entra in gioco la volontà della donna ma avviene per fattori esterni, l’aborto terapeutico, quando la gravidanza viene interrotta per salvaguardare la salute o la vita della madre, e l’aborto indotto, che viene effettuato su richiesta della donna per motivi non di natura medica. Quello di cui si parla più spesso è proprio quest’ultimo genere.

L’aborto non è da sempre un diritto della donna. In Italia fino al 1978 è stato considerato a tutti gli effetti un reato regolato dal Codice penale. Nonostante chi lo eseguisse e la donna stessa corressero il rischio di essere puniti con la reclusione, le italiane non hanno mai smesso di cercare un modo per abortire. Spesso le procedure erano compiute dalle donne stesse, da non affidabili “mammane” o da medici e infermieri disposti ad andare contro la legge e più attratti dal guadagno che interessati alla salute delle persone. Anche se, per ovvie ragioni, mancano i dati precisi, si calcola che gli aborti procurati ogni anno fossero circa un milione. Le interruzioni di gravidanza erano effettuate di nascosto e in condizioni igieniche inadeguate, tanto che la morte della donna era frequente.

Agli inizi degli anni Sessanta, i grandi dibattiti emersi negli Stati Uniti e in Francia fecero sì che anche in Italia si cominciasse a discutere di depenalizzazione, regolamentazione, legalizzazione o anche liberalizzazione dell’aborto. Le reazioni della stampa e dell’opinione pubblica furono contrastanti e si iniziarono ad alzare voci radicali con dimostrazioni di piazza. Nel 1973 venne presentato il primo disegno di legge sull’interruzione di gravidanza che prevedeva la legittimità dell’aborto, a giudizio insindacabile del medico, solamente nel caso in cui ci fosse stato un rischio per la salute fisica o psichica della madre o pericolo di malformazioni fisiche e mentali per il nascituro. Inoltre, riconosceva la tutela dell’obiezione di coscienza per i medici.

La polemica si fece sempre più accesa fino a quando, nel 1974, venne pubblicato dal settimanale Panorama un sondaggio che rivelava che il 63% degli italiani pensava che il Parlamento si sarebbe dovuto occupare al più presto possibile di una nuova normativa sull’aborto. L’anno successivo la questione scoppiò quando la Corte Costituzione emise una sentenza con la quale dichiarava parzialmente illegittimo l’art. 546 del Codice penale, che prevedeva la reclusione per la donna e per chiunque le praticasse l’aborto. Venne introdotto, inoltre, il principio secondo il quale il diritto alla vita e alla salute di “chi è già persona” e quello di “chi persona deve ancora diventare” non fossero equivalenti.

Nel 1978 venne presentato un nuovo testo che passò subito alla Camera e poi al Senato: la Legge 194, detta “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Riconosceva la capacità di scelta autonoma e indipendente della donna ma anche il diritto di obiezione di coscienza del personale medico. La legge (ancora oggi) consente alla donna di interrompere la gravidanza in una struttura ospedaliera pubblica entro i primi 90 giorni dal concepimento, cioè entro il primo trimestre, ed è possibile abortire dopo (nel quarto e quinto mese) solo per motivi terapeutici. L’anno dopo iniziarono alcune raccolte firme per proporre un referendum abrogativo della legge 194 e nel 1981 i cittadini furono chiamati alle urne: quasi l’80% degli aventi diritto partecipò al referendum e il “no” (con ben il 68% dei voti) ricevette la maggioranza. La legge non venne quindi abolita e continua a valere tutt’oggi.

Nonostante siano passati 43 anni dalla sua entrata in vigore, non si può però dire che l’interruzione di gravidanza al momento sia accessibile e disponibile a tutti su tutto il territorio italiano. Il Sistema Sanitario Nazionale, secondo la 194, è tenuto ad assicurare che l’aborto volontario sia garantito a chiunque ne faccia richiesta in tutte le strutture pubbliche attrezzate e, nel caso in cui il personale assunto sia costituito solo da obiettori di coscienza, gli ospedali sono obbligati a risolvere il problema assumendo e trasferendo il personale, cosa che non sempre accade. Secondo i dati contenuti nell’ultima relazione trasmessa al Parlamento il 9 giugno 2020 riferiti al 2018, il 69% dei ginecologi in Italia è obiettore. Ad oggi, infatti, almeno 15 ospedali non praticano l’aborto perché tutto il personale sanitario in servizio è obiettore, in totale violazione della legge 194. La percentuale raggiunge un picco molto elevato nella regione del Molise, dove il tasso di ginecologi che non praticano l’interruzione di gravidanza è addirittura del 92%. Tante donne nel nostro Paese sono quindi costrette a migrazioni fuori regione per vedere loro garantito il diritto di abortire.

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