Una miniera di ricordi: Alberto Castoldi, l’erede di Montevecchio

Miniera di Montevecchio. 📷 AdobeStock

Di solito e con ragione, quando si parla dell’epopea mineraria sarda a cavallo tra Ottocento e Novecento, il pensiero corre al sud della nostra isola, a quel nucleo di terre dell’iglesiente comprendente i comuni di Arbus, Guspini, e le frazioni di Ingurtosu e Montevecchio. Qui il nome di Giovanni Antonio Sanna è leggenda, fondatore di un’industria affermatasi nel tempo a livello europeo. Ma c’è un’altra figura legata inscindibilmente alla miniera di Montevecchio. Si tratta del genero e successore di Sanna, l’ingegner Alberto Castoldi.

Di origini sassaresi per parte di padre e cagliaritane per parte di madre, il giovane Alberto nacque nella Cagliari del 1848. Entrò in collegio dopo essere rimasto orfano di suo padre a causa dell’epidemia colerica che investì la città di Sassari nel 1855. Molto abile negli studi, riuscì a conquistarsi svariate borse che gli permisero di conseguire una laurea a Pavia in discipline matematiche. Fu proprio il Sanna, viste le sue indiscusse qualità, a permettergli di studiare in Germania per conseguire la qualifica di ingegnere minerario con l’unica condizione che, al suo ritorno, esercitasse la sua opera proprio a Montevecchio. Detto fatto, nel 1870 partì alla volta di Freiberg per poi rientrare, nel 1874, ed essere affiancato al direttore della miniera, Giorgino Asproni (nipote del più famoso Giorgio, politico bittese). Nel frattempo, essendo per lui arrivata l’età di prendere moglie e avendo Sanna ancora la quarta figlia da “concedere” in sposa, fu stabilito anche il suo futuro familiare: sposò così Zely Sanna nel 1875, lo stesso anno della morte di Giovanni Antonio che era avvenuta a Roma solo pochi mesi prima. Peraltro, la loro unione sembrò un segno del destino: sia Alberto che Zely erano nati nella stessa casa di Cagliari, in via Sant’Eulalia, a distanza di quattro anni l’una dall’altro.

Rispetto alla gestione precedente della miniera, funestata da cause, rimpasti societari e perfino aggressioni fisiche, si può dire che quella Castoldi fu certamente meno rocambolesca. Di animo pacifico e molto prudente, l’ingegnere si creò subito fama di persona estremamente meticolosa e perfezionista, tanto sul lavoro quanto nella vita. I primi anni del suo ingresso nell’impresa dovette tuttavia affrontare alcuni problemi familiari, legati soprattutto alla divisione dell’eredità, che non rappresentarono comunque un problema per lo sviluppo dell’attività. Ecco infatti alcuni numeri che può essere utile conoscere per meglio capire: da una produttività di 6900 tonnellate di blenda e galena (i metalli che venivano estratti a Montevecchio) nel 1876, si passò alle 14170 del 1900, con un incremento del numero dei lavoratori da 1190 a 1500 (i dati sono ricavati dalla pubblicazione di Paolo Fadda, La Montevecchio di Alberto Castoldi, 2014, Carlo Delfino editore).

Le ragioni di un simile sviluppo erano diverse. Come detto, le qualità di Castoldi in primis, che dotò la miniera di macchinari all’avanguardia e investì in infrastrutture volte a semplificare i lavori di estrazione; ma anche l’ampliamento delle gallerie e l’apertura di nuovi pozzi. Un ruolo importante lo si deve attribuire poi alla benevolenza dei minatori che, a fronte di migliori condizioni di lavoro, prestavano la propria opera con maggior volontà. In quegli anni la professione di minatore era tra le più ambite e, fra i ceti bassi, veniva considerata come un posto fisso invidiabile. Fu anche per questo che gli spazi dedicati ai loro alloggi si ingrandirono sempre più fino a prendere la forma di villaggi poi convertiti nelle frazioni ancora oggi abitate intorno ai siti di scavo.

Con l’obbligo di risiedere a Montevecchio per almeno otto mesi all’anno, Alberto Castoldi stabilì i suoi uffici e la sua residenza nella palazzina della direzione, e chi lo ha conosciuto raccontava come preferisse una vita ritirata tra famiglia e amicizie ai mondani salotti borghesi. Dedicata l’ultima parte della sua vita all’attività politica, i suoi strumenti di lavoro sono oggi raccolti in una collezione che è stata donata dagli eredi al Comune di Arbus ed esposta nel complesso museale, all’interno dei locali dell’ex ufficio geologico a Montevecchio.

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