Monte d’Accoddi: la misteriosa ziqqurat sarda che sfida la storia

Un altare piramidale prenuragico che rimanda alle ziqqurat mesopotamiche: storia, archeologia e leggende si intrecciano intorno a questo sito unico nel suo genere, che ancora oggi affascina e interroga gli studiosi

Monte d'Accoddi, Sassari. 📷 Depositphotos

Un luogo sacro e millenario, avvolto in un mistero che potrebbe arrivare da molto lontano, dalla storica “terra tra i due fiumi”, la Mesopotamia, e dalle sue antiche civiltà, tanto da rappresentare un unicum non solo in Europa ma in tutto il bacino del Mediterraneo.

Nel nord ovest della Sardegna, a pochi chilometri da Sassari, al centro della pianeggiante sub-regione della Nurra, lungo la vecchia strada statale 131 in direzione Porto Torres, svetta una collina che per secoli è stata lo scrigno di uno dei monumenti preistorici italiani più antichi: il Monte d’Accoddi.

Il nome, le cui origini sono probabilmente sardo logudoresi, può essere tradotto in “Monte (o Collina) delle Pietre”, rispecchiando dunque l’aspetto che questo luogo ha conservato per quasi cinquemila anni fino a quando, nel 1952, gli scavi archeologici condotti da Ercole Contu e poi proseguiti da Santo Tinè, portarono incredibilmente alla luce un altare a piramide che altro non poteva essere se non un santuario risalente alla civiltà prenuragica.

In effetti, in tutta quell’area così ricca di testimonianze archeologiche, tra necropoli, domus de janas, dolmen, menhir e nuraghi, si avverte un’atmosfera sacrale, come testimoniato da tracce di riti propiziatori e da una stele granitica rinvenuta accanto al monumento, in cui sembra essere scolpita una divinità femminile. Una leggenda racconta infatti che un re mesopotamico, giunto nell’Isola per ragioni sconosciute, decise di far edificare un altare e di dedicarlo alla Luna, contrariamente alla tipica usanza di dedicarlo al Sole.

Il lavoro degli archeologi ha permesso di datare l’edificio e di ricostruire i due diversi momenti che, dalla metà del IV millennio a. C. in poi, hanno caratterizzato la sua realizzazione e il territorio su cui si erge, densamente popolato fin dall’età preistorica e attorno al quale si sviluppò un villaggio.

Durante il primo periodo, corrispondente al Neolitico finale, quindi tra il 3500 e il 2900 a.C., vennero costruiti villaggi con capanne a pianta quadrangolareabitati da popolazioni appartenenti alla cultura di Ozieri – una delle prime culture preistoriche delle civiltà antiche diffusa in tutta la Sardegna -. Il centro abitato ruotava attorno a un luogo di culto dove si svolgevano riti sacrificali, costituito da una necropoli con domus de janas e, ai lati, da un menhir alto più di 4 metri, una lastra gigantesca con sette fori, utilizzati forse per legare le vittime, e grandi massi di forma rotondeggiante.

Verso la fine del Neolitico queste genti edificarono una grande piattaforma piramidale, alla quale si accedeva con una rampa, e sopra una struttura di forma rettangolare con superfici dipinte soprattutto di un color rosso ocra, tanto che fu denominata “Tempio rosso”. La costruzione, abbandonata e in gran parte distrutta forse a causa di un incendio, durante il secondo periodo, quello dell’Eneolitico, nel 2700 a.C. circa, fu ricoperta di terra, calcare e blocchi di pietra e le popolazioni appartenenti alla cultura di Abealzu – Filigosa – che si sviluppò nell’Isola durante l’età del rame -, realizzarono una nuova ed enorme piattaforma sempre di forma piramidale, che prese il nome di “Tempio a gradoni” perché vi si accedeva attraverso una seconda rampa lunga quaranta metri e costruita sopra quella precedente. Questo secondo santuario, del quale sono state rinvenute ceramiche quasi intatte, svolse una funzione religiosa per almeno mille anni, poi, verso il 1800 a. C., fu abbandonato e utilizzato di tanto in tanto per scopi funerari, come testimoniato dal rinvenimento della sepoltura di un bambino attribuibile alla cultura di Bonnanaro – cultura prenuragica che prende il nome dal comune di Bonnanaro, in provincia di Sassari -.

L’assenza di siti con analoghe caratteristiche nel resto della Sardegna, ha fatto sì che l’altare di Monte d’Accoddi fosse frequentemente oggetto di studi da parte della comunità scientifica. Inspiegabilmente, infatti, il santuario è identico alle “ziqqurat”, le enigmatiche strutture religiose tipiche della Mesopotamia, di origine sumerica e babilonese, caratterizzate da alte piattaforme, sovrapposte, di forma piramidale, con a lato dei gradini che consentivano di raggiungere la sommità. Qui si trovava il tempio, considerato il punto di incontro tra il cielo e la Terra, tra l’uomo e la divinità.

La ziqqurat meglio conservata è quella di Ur-Nammu e si trova nel territorio che corrisponde all’attuale Iraq, appare pertanto incomprensibile come un altro di questi templi orientali sia stato rinvenuto proprio in Sardegna. Il collegamento potrebbe essere, tuttavia, erroneo. A non corrispondere sembra essere innanzitutto la datazione, il Tempio rosso del Monte d’Accoddi risale infatti all’epoca neolitica e sarebbe perciò più antico delle ziqqurat, la cui costruzione è collocabile alla fine del III millennio a.C. In secondo luogo, il patrimonio archeologico presente nell’area circostante e l’esame dei reperti rinvenuti proprio nei pressi del Monte d’Accoddi – oggi esposti nel Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico “Giovanni Antonio Sanna” di Sassari -, fanno più propendere per l’inclusione del sito tra gli altri monumenti megalitici caratteristici della Sardegna.

In ogni caso, rimane ancora molto da scoprire. L’enigma che aleggia sul Monte d’Accoddi non può dunque considerarsi risolto.

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