Alberi da frutto, mandorli, noccioli e noci sono soltanto alcune delle piante alla base della dieta degli antichi sardi che popolavano l’isola tra il 600 e il 200 a.C. Questo è quanto documentato dall’équipe di archeobotanica del Centro Servizi Hortus Botanicus Karalitanus (HBK) dell’Università di Cagliari guidata dal professore Gianluigi Bacchetta. “L’archeobotanica – racconta il docente – è una disciplina relativamente recente che si occupa di indagare tutti i resti vegetali rinvenuti negli scavi archeologici. Noi abbiamo iniziato circa 10 anni fa con i colleghi del Dipartimento di Archeologia in collaborazione con le Soprintendenze per i Beni Archeologici. Da allora abbiamo studiato i materiali presenti negli archivi e collaborato attivamente durante le campagne di scavo”.
Semi di differenti frutti risalenti al 500 a.C. ritrovati sul fondale della laguna di Santa Giusta, e semi di vite e melone, datati tra il 1400 e il 1100 a.C., ritrovati a Sa Osa, a Cabras, sono soltanto alcuni dei tanti esempi di viaggi nel tempo che ci fanno compiere i ricercatori. Viaggi che ci permettono di ridisegnare le abitudini degli antichi sardi dando preziose informazioni sull’alimentazione e sulle prime evidenze di coltivazione nell’isola.
“Grazie a un minuzioso processo – prosegue il docente – riusciamo a identificare i resti vegetali rinvenuti durante gli scavi archeologici. Si parte dalla flottazione dei sedimenti: un processo che ci permette di separare i materiali terrigeni da quelli organici come semi, frutti o frammenti di legno o altri materiali organici. Dalla flottazione si passa ad un’analisi visiva e morfologica dei resti vegetali, quando necessario microscopica, per arrivare ad una classificazione precisa in grado di dirci a quale specie vegetale appartenevano”.
I sedimenti archeologici vengono analizzati e conservati all’interno della Banca del Germoplasma della Sardegna, che fa parte dell’HBK, nata come struttura per lo studio, la tutela e la conservazione della biodiversità vegetale. “Un archivio – specifica il docente – che ha l’obiettivo principale di raccogliere, conservare e gestire i materiali relativi alla flora autoctona e i materiali coltivati. Recentemente, ha iniziato anche a conservare questi preziosi materiali archeobotanici ai quali in passato non veniva data particolare importanza”.
Gli obiettivi che si vogliono perseguire con questi studi sono molteplici. Da un lato permettono agli studiosi di verificare quanto ritrovato durante gli scavi archeologici. Dall’altro servono per capire la coerenza con quanto oggi viene coltivato e allo stesso tempo a comprendere la paleodieta delle popolazioni del passato. “Un aspetto che spesso dimentichiamo – sottolinea il docente – è che questi studi consentono anche di capire, o quanto meno indagare, i processi di domesticazione delle piante”.
Un esempio pratico. “Durante gli scavi di Sa Osa – prosegue il docente – è stato scoperto un sito di età nuragica dove sono stati rinvenuti tre pozzi sigillati in seguito ad un’alluvione del Tirso avvenuta più di 3000 anni fa. Al loro interno sono stati ritrovati molti semi, tra i tanti abbiamo individuato quelli della vite e del melone, intatti e non carbonizzati. Abbiamo confrontato i semi acquisiti con quelli presenti nei nostri database e, in funzione delle differenze di forma e dimensione, è stato possibile verificare che questi materiali appartenevano sia alla vite selvatica che alla vite coltivata. Associando questo dato a quello dell’età di realizzazione dei pozzi, datati al carbonio 14 tra 1391 e il 1125 a.C., abbiamo appurato che la quantità di semi di vite coltivata ritrovati in uno dei pozzi era maggiore di quella della vite selvatica.
Grazie a questa scoperta siamo riusciti a comprendere che le popolazioni nuragiche erano già in grado di coltivare la vite e arrivare alla sua domesticazione”. Un processo che ha avuto luogo nel corso di centinaia di anni che ha permesso di passare da una raccolta di frutti selvatici a una coltivazione di particolari vitigni. “Da qui sono nate le prime vigne – continua il professore -. Le nostre analisi comparative ci portano a dire che nel pozzo più recente il materiale ritrovato, che si riferisce già quasi totalmente a vite coltivata, è molto prossimo ai vitigni autoctoni attualmente coltivati in quelle aree: malvasia e vernaccia”.
Così come per la vite le stesse indagini sono state fatte anche per altre colture come l’olivo, il melone, le prugne e i fichi, solo per citarne alcune, che sono state analizzate in altri contesti per cercare di capire le relazioni tra ciò che veniva coltivato in tempi passati e quello che attualmente è il nostro patrimonio.”La prugna sanguigna di Bosa – aggiunge il docente -, che viene attualmente coltivata in quasi tutta la costa nord ovest della Sardegna è quella più prossima a quella che veniva coltivata tra il 500 e il 200 a.C.”.
Ma le sorprese dell’archeobotanica sono tante. “A Monastir – conclude il docente – nei pressi di Monte Zara a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 è stata ritrovata una pressa dall’archeologo Giovanni Ugas. Recentemente sono state condotte delle indagini chimiche sui materiali adesi alla roccia della pressa dimostrando la presenza dell’acido tartarico e dell’acido siringico, due composti che confermano che l’antico artefatto sia stato utilizzato per la spremitura delle uve. Attualmente la pressa risulta il più antico manufatto utilizzato per la vinificazione (risale al 1200 a.C.) nel Mediterraneo occidentale”.