Carlos Caszely: “El Dueno de l’Area chica” e l’altro 11 settembre

A 50 anni dal golpe in Cile, la stretta di mano che ha cambiato la storia del Paese e la vittoria di un uomo contro il Generale Augusto Pinochet

Carlos Caszely con la maglia del Levante

Carlos Caszely con la maglia del Levante

Quante immagini possono richiamare alla memoria quel terribile 11 settembre 1973? Una, cento, mille istantanee: frammenti impazziti di una delle pagine più dolorose della storia del Secolo breve. Salvador Allende che entra per l’ultima volta nel palazzo della Moneda, con quel maglione di un bianco sporcato dal grigio plumbeo dell’elmetto da soldato; il Palazzo presidenziale avvolto dal fumo delle bombe; la pagina de “L’Unità”, che riporta la notizia della morte del Compagno Presidente; i pattuglioni della morte che squarciano le strade di Santiago; il ghigno satanico di Pinochet, protagonista principale dello stupro della forza della ragione attraverso le ragioni della forza.

Tintinnare di sciabole e sangue per le strade, cadaveri e uniformi, aerei assassini e parate militari, lacrime e canzoni degli Inti Illimani: a questo pensiamo, quando la mente ritorna al Cile. A questo pensiamo, cinquant’anni dopo “l’altro” 11 settembre.

Eppure, su quel caleidoscopio di volti, suoni, note e gemiti, si staglia, apparentemente insignificante, la forza di un altro frammento impazzito, destinato a ritagliarsi uno spazio centrale nella storia che andiamo a raccontare: Pinochet, nel pieno della sua baldanza, stringe la mano ai giocatori della Nazionale cilena chiamati a giocarsi l’accesso ai Mondiali del 1974, in una sfida infernale non contro un avversario qualsiasi, ma contro Los Russos dell’orso Breznev. Saluti romani contro falce e martello, lo Sputnik alla prova dell’Operazione Condor. Un tornante senza ritorno della Guerra fredda, nello spazio ristretto di un campo da calcio.

I giocatori sfilano davanti al Generale come scolaretti irretiti dalla presenza di un preside incazzoso: non c’è da scherzare, con i militari. Un gesto sbagliato, una espressione fuori posto bastano e avanzano per far sparire un uomo, per trasformarlo in carne da macello su uno dei tanti voli della morte, destinati a riempire di scheletri gli abissi dell’Oceano. I giocatori sfilano impettiti, a parte uno, che tiene le mani dietro la schiena, rifiutando ostentatamente la stretta presidenziale. È Carlos Caszely, il centravanti del Colo Colo, baffoni da Campesino e tiro al fulmicotone, rosso di maglia e di pensiero: baricentro basso e idee che volano, gol a grappoli e pugno chiuso, piede destro e cuore a sinistra.

Caszely e Pinochet si guardano dritti negli occhi, El Dueno de l’area chica sfida con gli occhi El General: nella foto sembra che sorridano, ma quel sorriso è solo una smorfia carica di odio.

E di paura.

Caszely, socialista e amico personale di Allende, non ha la forza di contrapporsi a Pinochet, rifiutando di scendere in campo con la Nazionale: vorrebbe urlare in faccia al generale tutto il dolore per quella sventagliata di mitra che ha spezzato le parole del Compagno Presidente, vorrebbe ricordargli le esecuzioni di massa, le torture, gli stupri perpetrati sotto le tribune dello Stadio Monumental. Vorrebbe gridargli anche lui: “mucho más temprano que tarde, de nuevo se abrirán las grandes alamedas por donde pase el hombre libre, para construir una sociedad mejor!

Vorrebbe, ma non ne ha la forza. Lui deve solo giocare a pallone, ma la mano del Generale proprio non riesce a stringerla.

Eppure, neanche Pinochet ha la forza per toccare El Dueno de l’area chica, l’idolo delle folle amato anche dalla sua soldataglia. Anche Pinochet, a suo modo, sente di avere paura di quel diabolico centravanti con i baffoni da Pancho Villa. I due si guardano, e mi piace immaginare che il destino del Cile inizi a cambiare in quel momento: in quella stretta di mano proposta e rifiutata, in quello sguardo che vuol dire tutto e niente. Ti ho capito, Generale: io gioco solo a calcio, ma la mano non te la stringo. Ti ho capito, Generale: aspettami, perché la mia partita contro di te ancora la devo giocare.

Ma la partita che El Dueno aspettava non era quella che Los Russos scelsero di non giocare, e che Pinochet volle vincere con un gol a porta vuota, nello stadio Monumental ancora squarciato dalle urla dei desperados. No, quella partita si giocherà quindici anni dopo, quando El General, ormai abbandonato dall’amico americano, indisse un plebiscito sulla propria persona, al quale ancorava la sua poltrona alla Moneda: pensava di aver nascosto sotto una grisaglia grigia il sangue che imbrattava il maglione bianco di Allende, di poter vincere ancora una volta senza giocare, grazie ad un altro gol a porta vuota.

Non aveva però fatto i conti con un’altra immagine, che iniziò ad invadere incessantemente l’etere della televisione cilena: l’immagine di una donna minuta, triste ma non rassegnata, che con voce ferma, raccontava l’evolversi del suo 11 settembre: della notte in cui i militari la avevano strappata dal suo letto e dai suoi figli, della notte in cui l’avevano torturata, umiliata, violentata. L’immagine della forza della ragione, che può essere piegata ma non spezzata dalle ragioni della forza.

Poi il buio, e un’altra immagine: quella del centravanti con i baffi da Pancho Villa appena imbiancati dagli anni di attesa, e le idee che volano ancora, spinte dal lato sinistro del cuore. “Per questo il mio voto è No. Perché la sua allegria è la mia allegria. Perché i suoi sentimenti sono i miei sentimenti. Perché il giorno di domani potremo vivere in una democrazia libera, sana, solidale, che tutti possiamo condividere. Perché questa bella signora è mia madre”.

Eccolo il mio gol, Generale: così vinco la mia partita, così apro las grandes almades all’incedere di una società migliore, vagheggiata dalle ultime parole del Compagno Presidente. Viva Chile! Viva El Pueblo! Viva los trabajadores!

Ora sappiamo che significato dare a quell’istantanea, in cui Caszely e Pinochet si guardano e sembrano sorridere, in una smorfia carica d’odio: El General vedeva negli occhi del centravanti il germe della sua sconfitta, beffarda come un gol a porta vuota; El Dueno gettava il seme della sua vittoria, rifiutando la stretta di quella mano insanguinata. La vittoria di un uomo che giocava solamente a pallone, ma che sapeva di far paura al Generale; la vittoria di un centravanti, talmente forte da non piegarsi al ghigno di un dittatore; la vittoria di un uomo con le idee che volavano, al di sopra del fumo delle bombe e delle raffiche di mitra, per saldarsi per sempre con le ultime parole di Allende, nel ricordo dell’altro 11 settembre.

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