Io Racconto: “L’orsacchiotto venuto dal passato” di Antonino Trovato

Bentrovati amici lettori,

per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH vi propongo un racconto che mi ha emozionato tantissimo, mi sono lasciata avvolgere dalle parole, le descrizioni gli stati d’animo e i ricordi dei due protagonisti.

L’autore Antonino Trovato è nato a Catania nel 1984, ha vissuto i migliori anni immerso tra le letture di filosofia, la passione per la storia e gli amici con cui ha condiviso il periodo universitario, conseguendo anche la laurea in Filosofia e la specializzazione in Storia della Filosofia. È un grande appassionato di fantasy, horror, manga, anime e videogames, e cerca di coniugare, a modo suo, queste passioni attraverso la magia della scrittura, divertendosi a scrivere racconti e tentando altresì di dar sfogo alla propria creatività e, infine, con essa intrattenere ogni singolo lettore.

L’ho scoperto sulla sua pagina Instagram @darksinfeno84 dove condivide il suo amore per la scrittura e i libri.

Per creare l’atmosfera giusta per la lettura, suggerisco un brano che evoca ricordi lontani: Clocks dei Coldplay, il suono della tastiera credo si addica molto a questa storia.

Come dico sempre “scrivere è un dono” e Antonino è davvero bravo, non ci resta che aspettare i prossimi racconti, intanto gustatevi questo.

Io vi auguro buon week end e a presto con un’altra storia.

Buona lettura
Aurora Redville

L’orsacchiotto venuto dal passato

di Antonino Trovato

La notte era ormai calata tra le vie della città. Il vento dell’autunno novello sferzò ovunque la sua freschezza attraverso sporadiche e potenti folate, tanto da far inchinare persino gli alberi del parco cittadino. Oltre al verde della natura, contaminata dall’incurante mano dell’uomo, quel luogo ospitava reietti invisibili di una società divoratrice di sogni. Sotto la flebile luce ingiallita dei lampioni, l’ombra scura di un uomo malinconico sfiorò il selciato senza fretta, quasi fosse un corpo senz’anima. Le suole delle luride scarpe indossate, con i lacci penzolanti, erano pronte ad accogliere altra sporcizia; il corpo ingobbito, invece, preferì il caldo abbraccio di un rattoppato pastrano nero. Il vagabondo procedette senza curarsi del fetore di altri disperati che sovrastava il dolce profumo delle rose assiepate lì vicino; e mentre alcuni tossici, accomodati in panchine malandate, affidavano la loro esistenza a tristi siringhe intrise soltanto di amare illusioni, il fumo biancastro del suo sigaro ormai ridotto al lumicino inondò la stradina con un acre olezzo. Alcune gocce di sudore solcarono il volto emaciato, segnato dal tempo e dalla bianca barba incolta; in mano ghermiva un flauto d’ebano così lungo da poterlo poggiare sulla spalla destra. Sfiancato da ore di cammino, finalmente trovò ristoro in una desolata e sgangherata panca di legno. Si sedette, rilassò le membra e sospirò dando una fulgida occhiata alla luna; quindi, dopo un’ultima boccata, gettò via il fumante mozzicone e posò lo strumento dietro la schiena.

«Eh, mio caro Oscar, o qui, o in mezzo alle siringhe» disse con voce rauca. Decise di rannicchiarsi mentre chiudeva l’unico occhio ancora in vita. Poggiò il capo argentato su quel letto di fortuna, tanto scomodo quanto consolante, e infine s’addormentò stringendosi il ventre.

***

Il mondo della notte dette fiato alla pallida luce del giorno. Il parco continuava ad essere il placido ritrovo dei senzatetto, risvegliati anch’essi dalla rugiada come i vicini fiori agghindati da aghi maledetti e vuote bottiglie di alcolico godimento. Col passare dei minuti, la “Via delle Rose” si colorò di sguardi insofferenti, anime spente frutto di una quotidianità alienante. David non faceva eccezione: quel percorso inaridito dalla consuetudine aveva persino logorato la fiera volontà di reagire ed i ricordi, consegnati alla triste mano del passato, non erano più parte della sua frustrata coscienza. Tutto intorno la vita scorreva nella fluidità di mute percezioni annichilite dai soliti rumori della città. Improvvisamente udì la soave melodia di un flauto. Si fermò ad assaporare la vibrante tristezza di note sublimi, una forza tale da fargli riscoprire i recessi di ogni memoria. Chiuse gli occhi; la nebbia dei suoi pensieri mutò assunse lo spettro di limpide parole e nitide immagini. Il forte richiamo dell’infanzia.

***

«Mamma mamma! Guarda cosa ho trovato!»

«Cosa c’è piccolo mio?»

«Un orsacchiotto! Un orsacchiotto!»

«Dove?»

Il piccolo David corse incontro a sua madre, felice per quella scoperta. In mano tratteneva gelosamente un orsetto di peluche marrone con un fiocchetto svolazzante proprio sotto il ridente musetto; un fine gilet di stoffa, che avviluppava il morbido panciotto, era a quadretti rossi e gialli. Tra l’emozione e il fiatone, David proferì solo aria concitata. La madre lo guardò perplessa.

«E quello? Dove lo hai preso?»

Il bimbo prese fiato. Respirò profondamente prima di rispondere.

«Non l’ho preso! L’ho trovato!»

«E dove?»

«Ho sentito un suono bello…»

«Un suono? Che suono?»

La madre era sempre più esasperata: iniziò a fissare il figlio con aria austera. Ma David, dopo l’ennesimo ampio respiro, continuò a vaneggiare.

«È vero! Ho aperto la porta e… ho trovato lui! Ma la musica non c’era più…»

La madre gli scompigliò il caschetto bruno e sorrise.

«Che nome vuoi dare al tuo nuovo amico?»

Il bambino ammirò i lucidi occhietti del pupazzo, veri specchi dove riflettere la propria felicità. Fu allora che l’oblio tornò prepotente.

***

L’uomo, ancora convinto di tenere in grembo il giocattolo di pezza, rinvenne con la borsa a tracolla e l’anonimo abbigliamento tipico di un impiegato. Senza rendersene conto, David si era accostato alla panca di legno dove Oscar proseguiva con la sua malia, puntualmente ignorata dal resto dei passanti. L’occhio sinistro del vecchio si posò sulla camicia sgualcita dell’individuo impalato di fronte a sé; lo squadrò attentamente sino ad incrociare l’espressione sognante di un trentenne. Sulle brune basette i primi capelli bianchi iniziarono a fare capolino.

«Io ho già sentito questa musica» affermò David sedendosi accanto ad Oscar. Questi smise di suonare. L’ammirazione del più giovane si esaurì alla vista della macabra cicatrice posizionata sulla parte destra di quel volto maturo e severo. David arricciò il naso e deglutì stringendo le labbra. Inarcò le sopracciglia, tra lo stupore e il disgusto.

«Io sono un vagabondo» arrivò la replica, il tono cupo e mesto. Fece una pausa, poi tossì. Continuò a scrutarlo con fare indagatore. «Forse avrai assistito al mio concertino in qualche altra città. Il mondo, caro mio, è casa mia e grazie a questo faccio pure qualche soldo» e nel dirlo tagliò il vuoto con un fendente del suo strumento, tanto da far sibilare l’aria.

«Veramente no…» rispose l’impiegato, visibilmente costernato.

«Che peccato» esclamò ironico il flautista. David però non rinunciò a rimuginare su quella melodia.

«Eppure… io ho già sentito quel suono…»

L’interlocutore fece spallucce. In quel momento i due udirono un lieve brontolio.

«Non farci caso» disse il senzatetto grattandosi il capo per l’imbarazzo. «È solo che non mangio da due giorni. Vedi, nei bar non mi fanno mai entrare. Chissà perché!»

David piegò le labbra in uno stretto sorriso.

«Non si preoccupi. Ci penso io.»

Aprì la borsa e tirò fuori un panino. L’odore di prosciutto e provola si sparse delicatamente sin dentro le cavità nasali di entrambi. Condivisero quel pasto frugale senza fiatare, ma i pensieri perseguitavano ancora la mente di David. Iniziò a dimenare l’indice destro.

«Sa, quella melodia mi ha fatto ricordare il mio orsacchiotto…»

«Che orsacchiotto?»

«Un piccolo “amico” marrone col fiocchetto e il gilet a quadretti… Ma è passato tanto tempo… Mio padre, che si chiamava Erik, è morto quando io ero piccolo, troppo piccolo per averne memoria. Quel giocattolo, lasciato da chissà chi davanti la porta, mi ha dato sollievo. Però poi l’ho smarrito quando ci siamo trasferiti, io e mia madre, in questa fogna di città. Adesso non ricordo più nemmeno il suo nome…»

Oscar increspò le sopracciglia. Scelse il silenzio di una smorfia avvilita.

«Mi racconti qualcosa di lei» farfugliò David cercando di non affogare col cibo. Il senzatetto osservò il suo flauto, poi esplose in una risata. L’impiegato rimase interdetto.

«E cosa vorresti sapere? Come mi sono ridotto così magari? Te lo dico subito, è semplice: ti basta una bella laurea in filosofia, anni di disoccupazione, fai qualche cazzata per sfamarti e ti sbattono in carcere! Sai,» bisbigliò con aria truce indicandogli la rugosa cicatrice «questo ricamino non me lo sono fatto suonando questo vecchio flauto!»

David ingerì l’ultimo boccone; e intanto una lenta lacrima di sudore raggelante s’incammino lungo la sua schiena.

«Famiglia?»

Il vecchio — che nel frattempo aveva terminato la sua razione — si limitò a scrollare il capo. Un eloquente “no”. A quel punto, David si alzò, gettò a terra le briciole di pane accumulate sui pantaloni e fece un cenno con la mano in segno di saluto.

«Beh, il dovere mi chiama. È stato un piacere signor…»

«Oscar. Il mio nome è Oscar» asserì senza mostrare emozioni.

«E il mio nome è David. A presto Oscar, vorrei ancora ascoltare la sua musica…»

David si allontanò, mentre Oscar riprese a suonare. Trascorsero alcuni minuti, ma all’improvviso accadde qualcosa di unico: la diversità delle loro essenze venne travalicata dalla sincronia impercettibile di pensieri in movimento.

Oscar! Il nome del mio orsacchiotto!

Il pupazzo… David… è lui! Non ho dubbi!

Fremente di gioia, Oscar infilò le dita rattrappite in una delle tasche interne del cappotto. Da lì sbucò la testolina di un peluche.

«Lo abbiamo ritrovato…»

La magia svanì in un attimo e, nel frattempo, quella melodia smise di incantare l’atmosfera. L’impiegato, pietrificato da sensazioni mai provate, stette impalato di fronte la fontana del parco. L’acqua zampillava placida e allegra, ma ciò che gli ronzava in mente era soltanto l’ombra di un ricordo.

Oscar…

Quel nome lo spinse a tornare indietro, con la strana voglia nel cuore di rivedere quel triste musicista, ma vide solo una vuota panchina di legno. Osservò attentamente ogni angolo, ma del senzatetto non v’era più traccia. Deluso e rassegnato, non gli rimase altro che dirigersi in ufficio.

***

Era ormai sera quando David ritornò al parco; cercò Oscar con rapide occhiate, ma invano. Rincasò, mesto e affranto, nello stesso istante in cui l’alito intirizzito del giovane autunno anticipava l’arrivo della pioggia. Per un momento ebbe persino la strana sensazione di essere seguito. Dopo un po’, il campanello squillò. L’uomo aprì la porta e, con sua grande sorpresa, vide un orsetto marrone col fiocchetto e il gilet a quadretti poggiato sullo scalino. David si guardò attorno, ma non scorse nessuno all’orizzonte. Solo la polvere del temporale. Prese il peluche e lo strinse a sé, illuminato da rinnovata letizia, malgrado fosse malconcio e puzzolente.

***

In lontananza, col pastrano nero completamente fradicio, Erik, e non Oscar, osservò le scintillanti luci della città imperlate dalle raffiche provenienti dal cielo. Un pianto carico d’odio verso sé stesso gli rivoltò le profondità dello spirito, una vergogna mai assopita per aver abbandonato il sangue del suo sangue. Non era pronto per dire la verità, ma averlo rivisto gli dette la forza di rimanere con lui, in qualche modo. Imboccò la “Via delle Rose” suonando sotto la pioggia battente, con la certezza che David lo avrebbe trovato lì ogni santo giorno. Non cercava più solo la carità, tanto meno il perdono che sentiva di non meritare; in fondo, adesso gli importava solo restituire al figlio un pizzico di quella serenità smarrita.

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