Io Racconto: “Un’estate (e quel che accadde ben più tardi)” di Alessandro Barbaglia

Foto Aurora Redville

Bentrovati amici lettori,

per il nostro appuntamento di #ioraccontoaSH con immenso piacere vi propongo una storia estiva che sa di passato, di quel tempo che resta impresso nella memoria per sempre. 

Emozioni in parole dello scrittore Alessandro Barbaglia, poeta e libraio che racconta storie vere al 97% addizionate di un 3% di meraviglia.

Scegliere la colonna sonora per la lettura è stato davvero difficile perché volevo trasmettere quello che ho provato quando ho letto la storia, alla fine mi sono lasciata ispirare da Bob Sinclair con la sua World Hold On.

Vi do appuntamento a venerdì prossimo con un’altra storia. Adesso mettetevi comodi e buona lettura.

Aurora Redville

Un’estate (e quel che accadde ben più tardi)

di Alessandro Barbaglia

UNO

Fu così che tutto cominciò: Tito e Vittoria finirono in due campeggi differenti. Tito in quello della pineta, al seguito della famiglia certo, mentre Vittoria, coi genitori, era rimasta ancora in quello della spiaggia. Com’era stato sempre. Quando si rividero tra le onde del mare, perché i due campeggi in comune avevano la spiaggia, era passato un anno dall’ultimo bagno insieme, dall’ultimo sguardo tra loro e si ritrovarono più belli, più grandi, più adulti, con corpi nuovi che sotto quel sole d’agosto sembravano scintillare di vita.
“Vuoi dire che sta finendo tutto?” gli chiese Vittoria dando un senso alla vicenda.
“No, voglio solo dire che staremo in due campeggi differenti…” rispose Tito.
“E tu capisci che significa?”
E Tito lo sapeva: significava che la sera, tutte le sere, loro non avrebbero mai potuto incontrarsi perché i due campeggi chiudono alle venti, e dopo quell’ora non si può più passare da uno all’altro e addio serate a contare le stelle, a scalare gli scogli, a sperare di abbracciarla.
“Significa che perderemo” sintetizzò Vittoria usando quel codice tutto loro. “E io avevo capito avremmo vinto”.
Perché loro avevano sempre vinto: avevano vinto l’estate in cui Vittoria gli offrì un gelato e lui capì di amarla, o quella trascorsa insieme a fare Greco per settembre, o la scorsa estate quando per salutarla, lui, prima di far passare un altro anno senza di lei, le aveva regalato la sua racchetta da ping pong: una Stiga 4 stelle rossa e nera.
E lei l’aveva presa e aveva iniziato ad allenarsi – Tito era un fenomeno a ping pong – e in primavera era arrivata fino ai campionati regionali. E quell’estate, con Tito, voleva vincere ancora, anche a ping pong. E invece ebbe ben chiaro che quella distanza era un segnale di qualcosa di più grande.
“Dobbiamo trovare il modo di vincere nonostante” disse Tito intendendo nonostante la distanza.
“E se quest’anno ci baciamo?” aveva buttato lì Vittoria.
“Bell’idea” aveva tentato di dire lui, ma la voce gli aveva fatto un pigolio come avesse un nido di pulcini in gola.
“Basta capire dove, come e quando” disse Vittoria.
Perché è così che è cominciato tutto: per un bacio di cui non sapevano dove, come e quando.

(Parecchi anni dopo, poi in quello stesso campeggio, ci tornerà Vittoria, con suo marito e tre bambini. “Ma tu qui ci sei già stata?” le chiederà l’uomo sorprendendola agitata, come persa in un ricordo. E Vittoria dirà: “mai”. Che sarà solo una bugia piccina, o forse gigantesca).

DUE

“Oh, Edo – gli aveva pure toccato la spalla abbronzata, Tito, per dirgli questa cosa – va che te lo dico solo a te, ma io, quest’anno, poi, una sera di queste, magari a Ferragosto, ecco, io me la bacio la Vittoria! Me la bacio per davvero!”
E l’Edoardo, che poi era il figlio del bagnino, uno per cui dare un bacio a una ragazza era facile come aprire un ombrellone, gli aveva detto chiaro e tondo: “Te la limoni lì? Ai tavoli da ping pong?”
Perché era lì che passavano i giorni Tito e Vittoria a sfidare chiunque al doppio e a restare fianco a fianco giorni interi. Perché è così che va il ping pong: chi vince resta. E loro vincevano, sempre.
“Primo la bacio, non me la limono e di certo poi non al ping pong”
“E perché?”
“Perché quello è un gioco, e la Vittoria è una cosa seria!”
“Tito, allora ascolta me: la sera quando vai su al campeggio tuo, sulla stradina degli scogli, ecco ti porti anche la Vittoria. Arrivate all’ulivo bello, quello da cui si vede il mare, te la baci per un po’ e poi te vai in pineta e lei torna giù al mare entro le otto, o restate chiusi fuori ed è un casino”
“E la faccio tornare da sola? Dopo il nostro primo bacio, io, la pianto lì e le faccio fare tutta la stradina da sola? E poi come faccio prima delle otto? La bacio alle tre di pomeriggio? Senza luna, senza stelle, Con tutta la gente che passa?”
E Tito scosse la testa, come se dentro avesse il cigolio di un trampolino. Perché i baci sono una cosa definitiva, e il primo, poi, è la traiettoria di un tuffo.

(Che poi molti anni dopo, Tito, si domandò in effetti come mai non glielo avesse detto. “Ci vediamo a metà. Sarà bello vederti arrivare, sarà bello venirti incontro”. Sarebbe stato così logico! Ma che c’è di logico dentro il progetto di un primo bacio?).

TRE

“Allora ce l’ho io la soluzione – disse l’Edo – il torneo di ping pong, campeggio della spiaggia contro campeggio della pineta, quello di venerdì sera. Te arrivi in finale, la Vittoria anche e fate una di quelle vostre partite infinite che la gente non ce la fa più, va a dormire, voi restate soli, andate in spiaggia – perché è troppo tardi e non c’è più nessuno a controllare – e vi baciate in santa pace”.
E l’idea, a Tito, era piaciuta anche parecchio. E si erano pure organizzati. Vittoria si era iscritta per prima e lui per ultimo così si potevano incontrare solo in finale. Poi Tito vinse tutte le sue partite, e Vittoria pure, e mentre a mezzanotte, per la finale, erano ancora vantaggi pari, che nessuno dei due voleva vivere l’affronto di battere l’altro, e la tiravano lunga solo per restare soli nella notte, capitò una cosa strana: la partita era così bella, e loro due giocavano tanto bene, ed erano così luminosi da vedere in quella danza di dritti e di rovesci, che non solo gli spettatori non andarono a dormire… ma ne arrivano degli altri! Perché lo vuoi vedere un equilibrio così vivo.
“Il Tito – dicevano – la Vittoria? Uno contro l’altra?” e arrivavano di corsa. Verso le due di notte, sul 430 pari, arrivò il bagnino, che la notte faceva pure il guardiano, fece sgombrare l’area. Troppo chiasso, troppa gente, troppo tardi. La partita fu sospesa, la gente protestò, Vittoria fu portata a casa da suo padre. Per sicurezza. E Tito tornò solo.

(Che molti anni dopo, Tito e Vittoria, proprio nello stesso istante, ricordarono gli occhi uno dell’altra durante quella partita infinita. La voglia di baciarsi, la voglia di vincere quel bacio senza dover passare dalla sconfitta dell’altro. Un eterno pareggio di slanci ed accoglienze, rilanci, recuperi, dritti e rovesci. Ai tempi, i loro occhi, erano sembrati a tutti stelle).

Quindi a Tito venne l’idea.
“Sai dove la bacio io la Vittoria?” Aveva detto infine a Edo.
“Sulla bocca?” aveva risposto lui, bevendo una birretta, facendo un sorrisino.
“All’Imbutino!”
“E come ce la porti all’Imbutino!?”
“Infatti…” disse Tito già scoraggiato che l’Imbutino era la spiaggia chiusa dell’altro promontorio e o ci arrivi a nuoto o non ci arrivi. Ma di notte non nuoti nel mare così nero.
E fu allora che Edo fece una di quelle cose che ti cambiano la vita. Rubò un pedalò. A suo padre. Il bagnino.
“Va che mi leverà la pelle, sai? Vedi almeno di limonare duro!” E lo rubò, sfilò le chiavi del deposito, e rubò il numero quattordici. E mentre andava via tra le onde, il Tito, con la Vittoria a fianco, che erano le diciannove e avevano detto a tutti che tornavano per cena, pensò che a quei due lui gli voleva proprio bene. Come vuoi bene agli amici quando hai 16 anni, un tempo che poi passa e c’è da starci attenti.

(Molto tempo dopo Edo, con le ginocchia molli, raccontò che da ragazzo prese uno schiaffo da suo padre che gli girò la faccia. “Che avevi combinato?” gli chiesero quei vecchi, compagni d’ombra, di briscole e panchine. “Avevo combinato un bacio”. E quelli fecero “Ahhh”, come a saperla lunga, o a non credergli per niente)

QUATTRO

Insomma erano partiti. Ci avrebbero messo tre ore ad arrivare all’Imbutino in pedalò, ma avrebbero avuto poi tutta la notte per quel loro primo bacio.
“Sai cosa mi piace del ping pong?” aveva detto Vittoria a Tito, mentre le sue gambe snelle mulinavano sui pedali come a scavare il mare.
“Mi piace che il mondo lo misuri tutto in base dieci, metri, centimetri, chili, grammi… e al ping pong ci vinci agli 11, o al limite ai 21. Cioè, al ping pong non basta come misuri il mondo, tu devi arrivare un poco oltre”.
“Come l’amore” disse Tito che si sentiva come il mare, profondo, pieno di onde, scavato dalle gambe di Vittoria.
“Dici?” chiese lei.
“Per quel che ne so io…”. E che intendesse del ping pong, o dell’amore addirittura, non era chiaro neanche a lui.
Pedalarono in silenzio un minuto, forse per molto di più, e poi riparlò lei.
“Sai nuotare anche dove non si vede?” aveva chiesto Vittoria che a pedalar sul mare, di notte poi, aveva un po’ paura.
“Io neanche un po’” le aveva detto Tito.
“E se cadiamo?”
“Noi non cadiamo, noi facciamo come al ping pong”
“Cioè?”
E Tito gliel’aveva detto. In quel codice tutto loro. E lei aveva riso. E ridendo avevano fatto il giro della scogliera. E poi erano arrivati, alla goletta bianca dell’Imbutino.
In quella notte tutta loro.

(Molti anni più tardi, ma proprio tanti, venne rottamato il pedalò. Il 14 quello di Tito e di Vittoria. E nessuno sa perché ma la pressa che lo mandò in frantumi ne graziò una scheggia. Lì, inciso con un sasso c’era scritto: “noi facciamo come a ping pong”. La parte migliore di tutta questa storia).

CINQUE

Molto più tardi, poi, le arrivò una lettera.
“Vittoria ciao! Abiti ancora qui? Be, se stai leggendo questa lettera allora sì. Sai cosa si dice? Che il primo bacio non si scorda mai. E sai cosa davvero mi fa impazzire del nostro primo bacio? (Quanti anni son passati? Tu li conti ancora?) Che noi eravamo così belli, quella volta, in quella notte tutta nostra, l’ultima volta che ci siamo visti, che l’unica cosa che ci siamo scordati di fare è stato proprio di baciarci. Noi ci siamo scordati di baciarci, perché eravamo ubriachi di meraviglia. Ti ricordi com’è andata? Io tutte le sere. Il pedalò, l’Imbutino, le stelle, il mare, il falò per stare al caldo, tutto è stato così bello che non ci entrava più nemmeno uno spillo di bellezza, non c’era spazio neppure per un sospiro di Dio. Tutto era già bacio, lì. E noi eravamo lì. La vita fa la vita corre, va, cambia, salta. Cade. Il passato è un tempo stupido, passa anche lui, solo ciò che non accade non passa mai, e resta sempre vivo. Perché i baci sono decisivi, ma son più decisivi se non passano. Tu ti sei addormentata, quella notte, io ti ho coperto, e poi all’alba col sole che spuntava dal mare siamo tornati a casa a prenderci le urla terrorizzate dei nostri genitori. E mentre tornavamo il mare e l’alba erano nostri.
“Hai mai visto qualcosa di più bello?” mi hai chiesto a un certo punto. “Sì” ti ho risposto io. “E quando?” “Soltanto adesso” e ti ho buttato in mare, noi che non sapevamo nuotare dove non si vede, abbiamo aspettato l’alba per tuffarci insieme. E l’acqua era calda, e noi non sapevamo niente, e c’erano i pesci a nuotare lì con noi, e il sole spuntava ancora e sempre, laggiù a cancellare la notte, e l’alba rosa colorava le scogliere d’imbarazzo nel vederci parte di un bacio che non ci stavamo dando: che stavamo tenendo per noi. Noi, lì. Noi eravamo il bacio che Dio dà al mondo. Ne facevamo parte. Potevamo volere di più? Potevamo baciarci e consegnarci al passato? Noi abbiamo fatto come al ping pong.
Tuo Tito”.

(Poi non accadde più nulla, per molti anni ancora. Poi molto più tardi, Tito, chissà quando a dire il vero, riceverà un pacchetto, lo scarterà a fatica con le sue dita vecchie. Dentro, dio del cielo!, una racchetta da ping pong. Avrà una bimba, vicino alle sue gambe stanche. “Chi te la manda?, Nonno” chiederà curiosa e lui risponderà così: “Me la manda l’estate. Perché l’estate – dirà con voce fonda – fa come il ping pong: chi vince resta”. E a loro era restata).

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