“Non c’è bisogno di voi”, il nuovo romanzo di Matteo Secchi: E se l’infelicità fosse un crimine?

Un romanzo che esplora un futuro distopico in cui l'indice di felicità media determina il destino delle persone in un quartiere isolato chiamato “Le Bili bianche”. L'autore Matteo Secchi ci racconta la storia di Carlo e la sua battaglia per una vita migliore

Matteo Secchi - Non c’è bisogno di voi

Carlo vive in un quartiere chiamato “Le Bili bianche”, è una sorta di ghetto approvato dal partito politico “VOI” lo stesso ad avere istituito l’IFM, qui vivono le persone che vengono definite “Infelici”, in questo posto dunque vengono messi coloro che non essendo felici abbassano l’IFM, questo è considerato nocivo per le altre persone che hanno il diritto di essere felici e per la società stessa che sperimenta per la prima volta questa esistenza.

Nel quartiere ci sono “le stanze del saluto” dove si recano coloro che hanno deciso di mettere fine alla loro vita e sofferenza, le persone che per svariati motivi sono depresse o hanno avuto un momento difficile nella loro vita e sono state dichiarate non idonee a vivere con gli altri, il partito del VOI attraverso dei referendum online prende le decisioni per il popolo.

Che cos’è l’IFM? È un indice, e per l’esattezza l’indice di felicità media. Ce lo racconta Matteo Secchi nel suo nuovo romanzo “Non c’è bisogno di voi”, Morellini editore.

Come sempre vi suggerisco una colonna sonora per la lettura: Ludovico Einaudi “Experience”. Siete pronti? Si parte!

Nella nostra società questo indice non esiste, o meglio ci sono diversi indici, tra cui i livelli di felicità globale. L’IFM è il fulcro del romanzo perché il livello di felicità determina la propria posizione nella società.

La tematica è molto interessante, mi sono chiesta mentre leggevo il libro per quale motivo Matteo avesse affrontato una tematica così delicata, e devo dire che la risposta è arrivata quasi subito, è attualissima, e reale, soprattutto dopo la pandemia c’è stato un grande numero di persone che sono cadute in depressione per varie motivazioni.

Quando si legge questo romanzo, molte sensazioni entrano in gioco, perché Carlo il protagonista, potrebbe essere ciascuno di noi: lui deve affrontare un momento di tristezza e per questo viene isolato, allontanato dai suoi genitori e vive lì per due anni, senza decidersi ad attraversare le porte delle stanze del saluto. Vive la sua giornata nell’attesa che succeda qualcosa, poi un giorno nella biblioteca delle Bili Bianche incontra una ragazza di nome Aurora, è lei a dargli la speranza di una nuova vita, grazie a lei ritrova la curiosità per il mondo esterno e questo lo farà agire, per sé stesso, per Roberto il più giovane ragazzo rinchiuso nel quartiere, e per gli altri amici.

A mio parere è un romanzo godibilissimo, l’autore è bravo ad indagare l’animo umano, riesce a portarti nella testa del protagonista, a farti vivere un senso di angoscia e immobilità, perché vuole trasmettere tutto il disagio di colui che viene isolato dal resto del mondo, ma ci dimostra come la speranza sopravviva in ogni situazione.

Lo stile è semplice ma ricercato, il ritmo costante con qualche colpo di scena. Ci sarebbe tanto da dire, ma non voglio svelarvi troppo, anche se il genere distopico non è tra i miei preferiti devo dire che l’ho davvero apprezzato e consiglio la lettura a tutti coloro che vogliono scoprire un nuovo genere letterario.

Ho avuto modo di dialogare con l’autore che ha risposto ad alcune domande, se siete curiosi leggete l’intervista qui di seguito.

Buona lettura
Aurora Redville

Com’è nata l’idea del romanzo?
L’idea nasce per dare al lettore l’immagine di un percorso di metabolizzazione di un dolore, ossia uno di quei momenti bui – descritti da De André come “morte psicologica” – che a volte s’incontra nella vita. Ma queste storie molto spesso non sono originali, e probabilmente nemmeno interessanti. Per questo ho trasformato l’intero arco di un percorso che trasla dalla sofferenza alla rinascita mentale in un romanzo che racconta di un quartiere in cui i cittadini tristi vengono emarginati dalla restante popolazione, che questa infelicità preferirebbe non vederla. Nello specifico c’è anche un richiamo al mondo social perché è lì che questa cecità volontaria è ancora più evidente, un mondo saturo di colori in cui rifiutiamo di mostrare la sofferenza e la releghiamo in un posto ben protetto dagli occhi altrui, o la ostentiamo facendone un vessillo a tinte vivaci che risponde ai criteri di accettazione sociale.

Hai affrontato delle tematiche importanti, ho riflettuto molto sul concetto di felicità, tu che messaggio volevi trasmettere al lettore?
Il messaggio che veicola il romanzo è che l’infelicità è un fattore dell’esistenza al pari della felicità. Che è giusto tendere a dei momenti di gioia e serenità ma che non bisogna rifiutare di attraversare i periodi segnati da emozioni inverse. Bisognerebbe accogliere e attraversare la tristezza sapendo che esiste un andamento ciclico che tende a livellare i sentimenti. La felicità crea assuefazione e proprio per questo non è possibile vivere solo di questa perché avremmo bisogno di stimoli sempre più frequenti e intensi.

Un altro messaggio è che l’esclusione, l’emarginazione, la negazione sono modi sbagliati di affrontare ciò che ci spaventa, che non conosciamo o a cui non vorremmo andare incontro. Per questo Carlo, il protagonista, cede spesso alla curiosità, perché sa che è anche lì che ricomincia la vita.

Soprattutto, mi piacerebbe che il romanzo sia uno strumento di conforto per il lettore, per chiunque abbia/stia/vivrà un momento difficile.

Progetti per il futuro?
Ho bisogno di fare sedimentare questo romanzo per riprendere con una nuova opera, vorrei misurarmi con tematiche differenti e generi differenti. Ho diverse idee, voglio capire quale ritengo la migliore per me e i miei lettori.

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